giovedì 20 agosto 2015

Dal Pietrito alla Punta dei Briganti

Dal paese di Montelanico si raggiunge in automobile la località “Pietrito” (350 m). Il sentiero inizia in direzione Ovest verso la località "Framunti" dove il 21 dicembre 1868 venne catturato il brigante Cesare Panici. L’escursione prosegue costeggiando il fianco del Monte la Croce, e proseguendo attraverso un bosco di querce si giunge alla località “Funno Cellino”. Qui si attraversa un fossato e si prosegue per un sentiero che, in direzione Nord-Ovest, conduce alla località “Le Colobra” (650 m). L'ascesa continua sulla cresta del colle che fiancheggia il “Funno jo Vallone”, da dove è visibile la maestosa faggeta che si trova sulle pendici di Monte Lupone. Si continua a salire lungo la cresta arrivando in località “Jo Repecanino” (862 m), (nome che deriva dalla presenza di diversi esemplari di rosa canina), e infine sulla Punta dei Briganti (1.130 m). La vetta di questo monte costituisce un ottimo punto di osservazione per ammirare il paesaggio dei Monti Lepini ed in particolare sui pianori carsici del Campo di Segni e del Campo di Montelanico.

Quota partenza: 350 m
Quota massima: 1.130 m
Dislivello totale: 800 m
Difficoltà: media-elevata
Distanza: 10.000 m
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Tempo totale: 8h 30min
Ascesa: 4h 15min
Discesa: 3h 15min
Sosta pranzo: 1h 00min
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Itinerario
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Profilo Altimetrico
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Immagine 3D
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(Riproduzione riservata)

martedì 18 agosto 2015

Lettera di Cesare Panici a Papa Pio IX

 Nel 1867, un anno prima della sua cattura, avvenuta in Montelanico, Località "Framunti", il Brigante Cesare Panici scrisse a Papa Pio IX questa lettera proponendo la resa completa della sua banda in cambio della totale immunità:

Beatissimo Padre, Cesare Panici di San Lorenzo Capo Brigante, non che i suoi subalterni, trovandosi contro loro volontà, ma costretti per molte ragioni a menar vita di brigante nel territorio Pontificio, e non volendo fare tal vita insociale, chiedono perdono a Dio, a Sua Santità, e alla società intera. E per abbandonare tal vita, domandano la seguente grazia con li seguenti patti a Sua Beatitudine a SS.mo
1.a - che tutti i supplicanti siano graziati da qualunque condanna di morte, carceri, o pena che siasi.
2.a - che essendo tutti della provincia di Frosinone vogliamo essere trasferiti in un’altra provincia di questo Stato pontificio, e così menare una vita libera, e sociale.
3.a - Sottoscrivere il seguente precetto, che giammai riprenderebbero le armi per menare la suddetta vita Brigantesca, e commettere alcuna azione insociale, e così mancando vogliono essere tenuti alle più rigorose leggi.
4.a - Che per bene delle loro anime vogliono fare un mese di vita spirituale in un convento di frati da destinarsi da Sua Beatitudine;  e dotare dieci zitelle nella Venerabile Chiesa della Miracolosissima  Immagine Madonna del Soccorso posta nel territorio della Città di Cori, con la promessa ad ogni zitella la somma di scudi  venti, e ciò per una sola volta.
Se la bontà di Sua Beatitudine può, e vuole aggraziare li sunnominati con le suddette  condizioni, il Panici giura innanzi a Dio, che appena ricevuta la desiderata grazia, si presenta con tutti i suoi subalterni in una autorità Governativa pontificia.
Il sottoscritto baciandole il suo Sacro Piede ed implorando la Sua Benedizione Apostolica  per se, e i suoi subalterni, passa a segnarsi, Di Sua Santità, Dev.mo E Fedelissimo suddito Cesare Panici di San Lorenzo”

Fonte: Archivi Vaticani

giovedì 13 agosto 2015

Il brigante Cesare Panici


E chiudiamo con il Panici l'altro capobanda il quale, avendo rapito a Olevano Romano un certo Francesco De Pisi anch'egli possidente, ma non sentendosi sicuro da quelle parti, si trasferì con il sequestrato nei boschi di Collemezzo in compagnia d'un altro brigante: Giuseppe Pandolfi, in attesa che gli venisse consegnata la somma del riscatto. Occorre tener presente che i briganti trovavano in queste ed altre montagne la connivenza dei pastori che, per aver salvi i loro armenti, rifornivano i malviventi di viveri e munizioni, mettendoli anche al corrente del movimento delle truppe governative. Ugualmente, boscaioli e carbonari se la intendevano con i fuorilegge fino a quando non vennero emanate rigorose misure contro di loro.

Anche il Panici aveva i suoi manutengoli: di notte scendeva da Collemezzo per recarsi in una capanna in contrada «Framunti» ove lo attendevano i fratelli Flamini, l'uno detto «Caporuscio» e l'altro «Pezzone», pastori del gregge di proprietà di quel Francesco Rossetti di cui s'è parlato.

Il brigadiere Caporossi comandante la gendarmeria pontifìcia della zona, con l'appoggio di squadriglieri (pastori armati e aggregati, esperte guide di montagna), avendo ricevuto la «soffiata» da uno dei fratelli caprai, organizzò .l'appostamento. La notte del 21 dicembre del 1868, il «Caporuscio» volle offrire al «compare S. Giovanni» Cesare Panici una libagione più abbondante del solito, ma il vino, che era misto ad oppio, produsse gli effetti sperati; quindi ad un segnale convenuto i gendarmi aprirono il fuoco dall'esterno della capanna e cadde per primo il Pandolfi. Il Panici, benché ferito, ebbe la forza di difendersi ferendo due squadriglieri: Giuseppe Fraleone e Giovambattista Ercolani, ma alfine anche lui venne freddato con due fucilate. Il «Caporuscio», sfilata dalla mano del capobanda morto la rivoltella, nel maneggiarla, rimase ucciso dall'ultimo colpo rimasto nella canna dell'arma. Gli abitanti del paese vollero vedere nella morte del «compare» la punizione del tradimento; altri parlarono di «giudizio di Dio». All'indomani, i cadaveri dei due briganti, caricati su di un «barroccio», vennero trasportati a Frosinone.

Fonte:
Giovambattista Ronzoni
Ricerche sul Basso Lazio
(Arte - Storia – Archeologia – Folklore – Turismo)

martedì 11 agosto 2015

Il brigante Cima


Veniamo all'altro capobanda: il Cima. L'episodio che riferiamo, a distanza di 40 anni dal primo, si inquadra nel periodo in cui il brigantaggio, alimentato anche da fini politici dai legittimisti dell'ex re dei Borboni Francesco II, s'era organizzato in bande armate a scopo di vendetta e di rapina, assumendo proporzioni veramente pericolose per l'incolumità dei cittadini e il buon nome italiano in Europa. Di fronte alla recrudescenza del triste fenomeno, il Rattazzi prima (1862) e successivamente il Minghetti (1862-64) intrapresero una energica lotta di repressione con l'impiego di interi reggimenti, in pieno assetto di guerra, ai quali si aggiunsero anche le truppe del governo pontifìcio. Fu una lotta aspra e lunga che conobbe episodi di disumana spietatezza. I capi briganti, per citarne alcuni, avevano il nome di Andreozzi, Mazza, De Cesare, Parenti, Panici, De Girolamo, il Diecinnove e il Cima compreso. Essi compirono ogni sorta di delitti, spargendo il terrore nei territori di Veroli, Alatri, Castro dei Volsci, Pofi, Vallecorsa, Sonnino, Sezze, Bassiano, Amaseno, Carpineto Romano, Montelanico, Segni, Sgurgola e altrove.

Anche la banda del famigerato Cima fece parlare molto di sé. Dopo aver massacrato un intero distaccamento governativo nelle montagne di Veroli, il 27 maggio 1867 si portò nei Monti Lepini, riuscendo ad impadronirsi dei Signori Milani e Santopadre grandi possidenti di Segni. I due sequestrati vennero condotti nei boschi di Monte Lupone e per il riscatto i briganti chiesero 7.000 scudi. A tale notizia, i comandanti dei reparti dislocati in tutta la zona inviarono subito tre colonne che iniziarono un'azione concentrica di rastrellamento lungo le falde della montagna. Il Cima, vistosi braccato e privo di scampo, raggiunse quasi la sommità del Monte Lupone e nascose i due sequestrati in una cavità, sita in un punto impervio, detto «Serrone scarabeo», ricoprendone l'accesso con sassi e rovi. Una delle colonne, guidata dal Coli. Bartolini, raggiunse la località dov'erano i due malcapitati, però avendo trovato il fuoco ancora acceso e resti di cibarie e vino, ebbe la convinzione che i briganti fossero fuggiti; al contrario erano nascosti in quei pressi tanto che ascoltavano i discorsi e le imprecazioni della truppa! Come riferirono poi i due segnini. il Colonello Bartolini, dopo tre ore di appostamento, visto che le altre due colonne si dirigevano verso di lui, pensò di ritirarsi e il Cima che aveva tutto spiato, trovata la via libera, approfittò per darsi a fuga precipitosa con i suoi uomini. Il Milani e il Santopadre potettero raggiungere in serata le loro famiglie senza aver pagato il riscatto, ma duramente scossi per il pericolo corso.

Fonte:
Giovambattista Ronzoni
Ricerche sul Basso Lazio
(Arte - Storia – Archeologia – Folklore – Turismo)

domenica 9 agosto 2015

Il brigante Gasparoni


Iniziamo con il famigerato Gasparoni, il più temuto, che nelle montagne di Abruzzo aveva ai suoi ordini un vero e proprio esercito, e riusciva a spostarsi facilmente da una regione all'altra dello Stato Pontificio e di quello borbonico, mettendo in scacco le forze dell'ordine. Nel maggio del 1824, dopo tre giorni di gozzoviglie nei dintorni di Priverno, ove s'era ricongiunto con Michele Feodi altro capobanda, Gasparoni passò nella foresta di Cisterna, continuazione della foresta di Terracina, la quale, essendo percorsa dalla via Appia, costituiva per i briganti una zona ideale per le loro imprese. Difatti, attestatisi nella località «Pizzo del cardinale» e favoriti dalla luce lunare, assalirono una carrozza proveniente da Napoli con dentro due ufficiali austriaci diretti alla loro patria. Però fecero appena in tempo a rifugiarsi nel bosco con i due malcapitati, portando via due cassette di ordinanza, che giunse una scorta militare e aprì subito il fuoco.

Quell'impresa fruttò un magro bottino: due spade, un orologio d'oro e, racchiusi nelle casse, biancheria, uniformi, specchi e bottiglie di profumi. I due ufficiali, rimasti «puliti», ma senza aver subito vessazioni, furono lasciati liberi e potettero riprendere il viaggio con la stessa carrozza. Gasparoni quindi con i suoi seguaci si allontanò da quella località e risalendo le alture che sovrastano Cori, aggirando le falde occidentali di Monte Lupone, raggiunse all'alba l'altipiano di Collemezzo, una lunga distesa contornata da folti boschi e delimitata dai confini di Carpineto Romano, Norma e Montelanico. I banditi trascorsero colà l'intera giornata e si divisero il bottino della sera precedente con il gioco della conta, e giacché volevano appropriarsene solo «gli anziani», dovettero quindi sottostare all'ordine del capo. Il Feodi, irritato per essere rimasto «all'asciutto», abbandonò Gasparoni, ma dopo qualche mese trovò la morte nei pressi di Veroli.

La presenza di Gasparoni in questa zona dei Monti Lepini aveva uno scopo ben determinato: sequestrare il Signor Francesco Rossetti, Vice Governatore di Montelanico, il più ricco possidente del paese. Tale azione, da tempo progettata, doveva attuarsi durante la notte nello stesso palazzo del designato, che si affaccia sulla piazza principale o «borgo» del paese, distante da Collemezzo poco più di un'ora di cammino. Se non che, per un caso fortuito, quel progetto subì una variante; difatti verso L'imbrunire di quel giorno si presentò per essere aggregato alla sua banda, un certo Angelo Iranelli fuggito da Montelanico per aver commesso un omicidio durante una partita di gioco. Gasparoni, perché il colpo non gli fallisse, si affrettò a chiedere informazioni e consigli al nuovo venuto, il quale riferì che, in giornata, la persona da sequestrare aveva lasciato il paese per recarsi a controllare il suo bestiame e la raccolta del fieno lungo i «Colli di Gavignano», di cui era affittuario, ed avrebbe pernottato nella ex abbazia di Rossilli, dall'aspetto d'una casa fortificata e annessa al Santuario omonimo. Dopo queste informazioni Gasparoni decise di dirigersi durante la notte verso la meta designata, guidato dallo stesso Iranelli e, all'alba del 6 giugno 1824, raggiunsero un bosco poco lontano dal fabbricato di Rossilli. Dopo aver studiato in giornata il piano d'azione, il capo, al calar del sole, mandò verso il casale cinque dei suoi più spericolati che, indossate le divise tolte agli ufficiali austriaci e con il pretesto di chiedere acqua fresca da bere, avrebbero dovuto effettuare il colpo. Il Rossetti, che se ne stava tranquillamente seduto sulla porta d'ingresso, alla vista poco rassicurante di quei militari. improvvisati, si rinserrò sprangando l'uscio e agli uomini che bussando chiedevano acqua, rispose che potevano attingerla ad una fontana esterna del fabbricato. A questo punto i malintenzionati lanciarono un fischio acuto e a quel segnale, Gasparoni e gli altri della banda, usciti dal bosco, raggiunsero il gruppetto e a colpi di scure forzarono la porta. Il Rossetti, ritenuta inutile ogni resistenza, spalancò il portone e, a mani alzate, supplicò che gli venisse risparmiata la vita. Il capo dei briganti promise che non gli sarebbe stato torto nemmeno un capello, a condizione però che avesse sacrificato tutto il suo oro e il suo bestiame. Probabilmente il ricattato avrebbe potuto avere la meglio sugli aggressori, poiché con lui c'erano quattro robusti guardiani armati di fucili e sopra un grosso tavolo v'erano mucchi di cartucce già preparate, nonché carniere ripieno di munizioni. Ma in simili frangenti sappiamo come vanno le cose: lo spavento e lo smarrimento indussero quel poveretto a sottostare agli ordini risoluti di Gasparoni, che lo condusse oltre le montagne di Gorga ove rimase per 10 giorni in attesa della somma del riscatto. Si parla di 400-500 scudi, somma che fu raggiunta con l'offerta anche da parte delle donne di Montelanico, di orecchini, anelli e collane, pur di salvare la vita del Vice Governatore. Il Rossetti non fu sottoposto a sevizie o a maltrattamenti di alcun genere, come è stato tramandato, e non appena fu lasciato libero, potè raggiungere lo zio Alessandro Papi, Governatore di Sezze, che era stato l'intermediario per il riscatto. La famiglia Rossetti restituì poi il corrispondente valore in denaro a tutti coloro che spontaneamente s'erano privati dei propri preziosi. A titolo di gratitudine per il suo «buon servizio», Gasparoni regalò a Iranelli uno dei fucili con cartucciera, portati via dal casale di Rossilli e quindi si diresse verso Poli, dandosi ai consueti bagordi. Dopo qualche giorno si trasferì nelle montagne di Veroli, ma notò che tra i suoi briganti mancava lo Iranelli. Questi, il 6 luglio del 1824, era stato ucciso nel territorio di Patrica da un tal Tommaso di Antonio Bracci che, allettato dalla forte taglia e simulatosi anch'egli brigante, voleva consegnarlo in mano alla giustizia. La testa dell'ucciso, messa in una gabbia di ferro, fu esposta nella pubblica piazza di Montelanico perché, dice fra l'altro un avviso del Governatore Benvenuti della Delegazione di Frosinone, «tale esempio possa servire di remora al probo e di stimolo ai bene intenzionati, affinché si animino nel contribuire ai nuovi e sempre più efficaci sforzi che il Governo sta facendo per estirpare le Bande dei malviventi che infestano le Province di Campagna e Marittima»

Fonte:
Giovambattista Ronzoni
Ricerche sul Basso Lazio
(Arte - Storia – Archeologia – Folklore – Turismo)

venerdì 7 agosto 2015

Episodi di brigantaggio del secolo scorso nei Monti Lepini


Rievocare, ai nostri giorni, episodi di banditismo del secolo scorso è come trattare un argomento più che di attualità, ma nello stesso tempo e sotto certi aspetti superato, di fronte a ciò che assistiamo da qualche anno a questa parte in Italia e altrove. Lontani dal voler fare una diagnosi, e tanto meno la storia del triste fenomeno che dilaga da un continente all'altro, dobbiamo purtroppo ammettere che la criminalità, tutt'uno con il brigantaggio, è sempre esistita pur con forme e metodi diversi ed è sempre stata una delle piaghe più nefaste della società. Se un tempo si preferivano gli appostamenti lungo le vie carrozzabili o ai margini dei boschi, protetti dalle ombre della notte, oggi, in pieno giorno si assaltano banche, negozi, corriere e treni, si svaligiano appartamenti, si sequestrano individui e, ultima delle novità è subentrata la pirateria aerea, che mette in serio pericolo centinaia di innocenti e tranquilli passeggeri. Anche i mezzi di offesa sono mutati: ai tromboni, alle doppiette, alle carabine si sono sostituite le bombe a mano, il tritolo e il mitra. Non è da credere tuttavia che i briganti di un tempo fossero meno aggressivi e feroci dei delinquenti di oggi: ricatti, assassinii d'ogni sorta, rapine, incendi, distruzioni di messi, carneficina di bestiame, martirii più raffinati erano all'ordine del giorno. Gli episodi che ci accingiamo a narrare non presentano però nulla di raccapricciante; si tratta di normali colpi di mano a scopo di furto o di ricatto e i protagonisti sono tre famosi capobanda: Gasparoni, Cima e Panici.
 

Fonte:
Giovambattista Ronzoni
Ricerche sul Basso Lazio
(Arte - Storia – Archeologia – Folklore – Turismo)